Come se il tempo non fosse mai passato, Gary Kemp, Martin Kemp, Tony Hadley, Steve Norman e John Keeble, riescono ancora a caricare il pubblico di energia. Per loro il tempo sembra essersi fermato, e per una sera nella magica e calda atmosfera della Cavea all’Auditorium Parco della Musica di Roma, è sembrato di essere stati catapultati indietro nel tempo, tramite una strana e magica alchimia in grado di generare tunnel spazio-temporali. Quella magica alchimia che scava dentro l’anima profonda di ognuno di noi, quell’unica ed infinita fonte di emozioni, ricordi, passioni che si chiama Musica!
Doveva essere una serata memorabile, un ritorno atteso, un successo. E in effetto lo è stato. L’immensa energia profusa sul palco dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, dimostra che gli Spandau Ballet sono ancora una grandissima band, capace di coinvolgere, emozionare e far ballare con un repertorio di canzoni che non accusano assolutamente lo scorrere del tempo. Il gruppo inglese ha entusiasmato la platea della Cavea con uno show di vibrante intensità, stregando il pubblico, nella tappa romana dell’appendice estiva di un tour che sembra non finire mai (partito a settembre 2014).
La venue è gremita in ogni ordine di posto e su Roma scende la sera di un giorno rovente, quando Tony Hadley intona “Soul Boy” uno dei nuovi pezzi realizzati con il mago della produzione anni ’80 Trevor Horn. Ci sono davvero gli ex ragazzi e le ragazze di quegli anni, e li riconosci dal fatto che cantano tutti i pezzi a memoria, fremono sulle poltroncine e vorrebbero avvicinarsi ai loro idoli.
Sono gli stessi che all’epoca affollavano gli stadi e i palasport italiani, rincorrevano i loro idoli per una foto, un autografo, uno sguardo. C’è anche chi ha preparato un palloncino a forma di cuore lanciandolo più volte sul palco.
L’apertura è subito da brivido: sfilano le intense e celebri “Highly Strung“, “Only when you leave“, “How many lies” e “Round and Round” e si rimane tramortiti di fronte a tanta bellezza. Canzoni stile di memoria e romanticismo pop soul, che hanno rappresentato gioia e passione per milioni di persone. Il chitarrista e autore Gary Kemp sa che la gente non aspetta altro, quando afferra il microfono e dice: “Volevo dirvi che avete la mia autorizzazione se volete avvicinarvi al palco, potete venire qui sotto“. E da quel momento comincia un altro concerto, quello vero. Il pubblico canta a memoria, balla, fotografa e filma ogni singolo momento, gli Spands si concedono senza riserve e mettono la loro anima e il loro cuore al servizio della grande musica: così si balla con i vecchi pezzi dei primi album (“Chant, No. 1“, “Reformation”, “Mandolin“, “The Freeze” e “To Cut a Long Story Short“) preceduti dai due splendidi momenti più recenti, “This is the love” e “Steal“.
C’è anche il momento dedicato all’ultimo album prima dello scioglimento del 1989, “Heart like a Sky“, dal quale sono tratte “Raw” ed “Empty spaces“. Ma il culmine si raggiunge nella la seconda parte, con i fan sono sempre più coinvolti e stregati da uno spettacolo che va ben oltre la banale operazione nostalgia, perché brani come “I’ll fly for you“, che lo stesso Tony definisce la canzone grazie alla quale il gruppo ha iniziato la sua lunga storia d’amore con il pubblico italiano, “Lifeline” e soprattutto l’immortale “True“, sono irresistibili, immaginifici, iconici.
Il sax di Steve Norman giganteggia, fraseggia e incanta il pubblico, da sempre punto di forza della miscela pop soul della band londinese, polistrumentista elegante e onnipresente, in mezzo al gran lavoro di ritmica del bassista Martin Kemp e del batterista John Keeble.
La chiusura è affidata alle due canzoni forse più rappresentative: la trascinante “Gold“, cantata a memoria e a squarciagola dal pubblico romano e la gloriosa ballad “Through the Barricades“, brano che fece raggiungere l’apice del successo, vero e proprio picco creativo di Gary Kemp. Si finisce con le lacrime e gli applausi, mentre le persone dall’espressione felice guadagnano l’uscita e altre aspettano ancora che si ripeta l’incantesimo.
E forse è giusto così. I ragazzi degli anni Ottanta sono inguaribili idealisti e gli Spandau lo sanno.
Foto di Cesare Orlando e di Manuela Marinelli