C’era una trepidante attesa – tanto per ricorrere a uno stantio incipit giornalistico – per il ritorno del Porretta Soul Festival alla sua veste stagionale tipica, la terza settimana di luglio. Ebbene, nonostante la sosta forzata, la rassegna appenninica ideata nel 1988 e tuttora diretta con ferma ostinazione da Graziano Uliani è ripresa a pieno regime, confermandosi la più adatta vetrina al mondo per il rhythm & blues di marca tradizionale, e senz’altro uno dei migliori festival musicali, di ogni stile
Anche i numeri sono impressionanti, per una manifestazione che è errato dire di nicchia, quando vanta un totale di 50.000 fan nel mondo e dove in 34 anni sono sfilati più di mille artisti e 350.000 spettatori.
E questo non tanto grazie alla pur ineccepibile qualità dei partecipanti. Per dire, la località posta al confine tra Emilia e Toscana (non si chiama più Porretta; dal 2016 ha preso il nome di Alto Reno Terme), tiene gli spettacoli principali al Rufus Thomas Park, ha una via intitolata a Otis Redding, un ponte dedicato a Solomon Burke e pure Sam Cooke ha un vicolo a suo nome.
Sarebbe vano aspettarsi nel 2022 performer all’altezza dei nomi celebrati dalla toponomastica cittadina, eppure il figlio di Solomon, Selassie Burke, ha fatto un figurone nel replicare il repertorio del padre e dei suoi contemporanei. Altri nomi risonanti hanno onorato la vecchia scuola.
Veterani come il magnifico dallasiano Ernie Johnson, il cui pezzo forte è una estesa versione di “I’ve Got Dreams to Remember” di Redding, o John Ellison, che dopo una ipnotica “Unchained Melody”, eseguita a cappella, ha altrettanto miracolosamente duettato sul palco con una piccola fan disabile, commuovendo l’intera arena. Per non dire delle robuste vibrazioni emesse da Fred Wesley e da Martha High, eccellenti testimoni dell’irripetibile stagione di James Brown.
Tra i rappresentanti dell’età di mezzo, si sono fatti onore Leon Beal, che ha aperto la kermesse a suon di Bobby “Blue” Bland, in forza alla sapiente band di Luca Giordano, Larry Springfield, epigono di Johnnie Taylor e titolare di SugaShack, un club nella Beale Street di Memphis frequentatissimo dal pubblico afroamericano, e naturalmente la sua esile ma oltremodo dinamica concittadina Chick Rodgers, che ha fornito la più seducente esibizione tra le cinque che ha proposto, negli anni, su questo palco.
Le quattro serate, dalla durata più che generosa (tra le quattro e le quasi sei ore ciascuna!), sono fedelmente rivivibili su YouTube grazie alle riprese di LepidaTV. Testimoniano il tour de force della band di casa, la Anthony Paule Soul Orchestra, integrata da Eamonn Flynn, irlandese trapiantato in California e tastierista della colonna sonora milionaria del film “The Commitments”, dalla batteria di Kevin Hayes, dal sax tenore di Charles McNeal e dal baritono di Andrea Scorzoni, che domenica pomeriggio ha fatto gli straordinari in seno ai Groove City, con l’organo di Fabio Ziveri e la voce di Sabrina Sotgiu. Paule, 65 anni, chitarrista e arrangiatore della Bay Area, ha messo in luce le doti dei suoi coristi, Omega Rae, Nona Brown e Larry Batiste, che in trio hanno interpretato una dolce hit dell’altro ieri, “Just One Look”, e della maggior parte dei cantanti convenuti.
C’erano anche la sua abituale aggregata Terrie Odabi e lo scatenato pianista neorleansiano Mitch Woods, idolo dei ballerini di boogie-woogie grazie a classici arrembanti come “The House of Blue Lights”. Altri si sono fatti accompagnare dai propri strumentisti, come il sempre benvenuto Curtis Salgado, in equilibrio tra soul, blues e l’impressionismo tutto personale di brani come “20 Years of B.B. King”, o il vocalist afro-londinese J.P. Bimeni, che con gli spagnoli Black Belts ha convinto di meno rispetto alla sua prima venuta, nel 2019.
Come anteprima della manifestazione, il 20 luglio, si è svolto un interessante incontro sulla figura di Alan Lomax a vent’anni dalla morte, in memoria delle esperienze nel porrettano del celebre etnomusicologo nell’inverno del 1954. Vi ha partecipato anche il produttore Scott Billington, a sua volta vecchia conoscenza del festival, forte di “Making Tracks”, il libro autobiografico che svela come riuscire a trarre il meglio da giganti addormentati come Johnny Adams, Ruth Brown, Irma Thomas e Charlie Rich.
Scott è anche musicante affidabile; in coppia con la moglie, la vocalist Johnette Downing, si esibisce regolarmente in patria in un repertorio di canzoni per bambini, ma stavolta, espressamente per Porretta, i due hanno impostato una magnifica scaletta sul canzoniere di Lomax. Eseguita con grazia e passione e il solo accompagnamento di armonica e ukulele, ha entusiasmato un pubblico normalmente poco avvezzo a scaldarsi per il folk acustico.
Il segreto del festival è il suo senso complessivo di integrazione, dentro e fuori il terreno musicale vero e proprio. Nonostante i cronici problemi di ricettività alberghiera, che costringono i pellegrini del soul ad andare a cercare un giaciglio ben oltre le borgate circostanti, il clima festoso coinvolge artisti, residenti, visitatori e appassionati anche nelle ore in cui la musica tace, o resta in comodo sottofondo del passeggio, dell’aperitivo o dell’assaggio all’invidiabile arcipelago di street food. Una generazione più tardi, si respira ancora quella complice solidarietà che portava i vecchi del paese, nei pionieristici anni Novanta, a familiarizzare con un alieno come Rufus Thomas, di cui non conoscevano né la lingua né la musica. E a far tornare in auge sentimenti ancor più antichi, quelli attorno ai quali il soul si fece strada, portavoce di una battaglia per l’emancipazione che non è ancora compiuta.
Galleria fotografica a cura di Mariano Trissati (tutte le foto sono visibili anche sulla nostra pagina Facebook).