“La prossima canzone è un blues che ho scritto insieme a Lowell Fulson, nel suo tinello, mentre la televisione era accesa col volume al minimo”. Dal palco del Porretta Soul Festival, dove per mille volte (anche quest’anno) hanno risuonato inni di battaglia come “Mustang Sally” e “Everybody Needs Somebody to Love”, con tenera voce da crooner vissuto, Billy Vera intona “A Room with a View”
È un brano che, pur relativamente tardivo rispetto ai cosiddetti anni d’oro del genere, ne esprime perfettamente i tratti: disagio, smarrimento, claustrofobia, infelicità. Ispirato al fortunato film di James Ivory, intitolò un magnifico album del 1988 di Johnny Adams. Il produttore, Scott Billington, nel 2007 fu insignito del Sweet Soul Music Award per i molti meriti acquisiti sul campo.
Stavolta il trofeo spetta proprio a Vera, un gentiluomo dello spettacolo che di profilo ricorda Adriano Galliani. Ci si accorge che è riduttivo pensarlo semplicemente come un campione della Sweet Soul Music, ed è un’emozione averlo qui non soltanto a ricevere l’attestato ma a chiacchierare con il pubblico (uno dei mestieri che esercita ancora è il conduttore radiofonico) e a duettare con occasionali ma degnissime comprimarie che non raggiungono la metà dei suoi anni.
Sarebbe ingannevole ritenere che la breve ma sorprendente apparizione di Billy, un inedito per l’Italia, valesse da sola il prezzo del biglietto, tanto per ricorrere a un comodo luogo comune dei recensori. L’alternanza di artisti già familiari, almeno di nome, a perfetti sconosciuti, ha consegnato un’edizione memorabile per intero, facendo impennare persino il già elevato standard di sempre. Si dice che la manifestazione è unica anche grazie all’effervescente, gioioso clima che la accompagna, e che il popolo di Porretta – quarantamila presenze, sorride lo storico, indefesso patron Graziano Uliani mentre tiene il conto di tutti gli appuntamenti – vi ritornerebbe anche senza conoscere il cartellone, sicuro di non restare deluso.
Nel 2024 si è ritrovata una incantevole Wendy Moten, maturata rispetto a cinque anni fa, degno volto del festival su locandine e manifesti. Il canto femminile ha svolto certamente la sua parte, anche grazie alle deliziose Shunta Mosby, Dani McGhee e Candy Fox, compagne di viaggio sul virtuale autobus esclusivo da Memphis, alla sassofonista e vocalist francese Maëlys Baey, che deve il suo approdo alla segnalazione di Sax Gordon e all’apprezzamento dell’organista Alberto Marsico, per l’occasione aggregato alla band originale Miss Bee & The BullFrogs, e alla gigantesca gita scolastico-musicale delle Sweethearts, tutte teenager eppure già leggendarie: una trentina le convocate della girl band australiana che canta, balla e suona soul music di ogni epoca, anche sul beat degli ottantotto tasti del sempre disponibile Mitch Woods.
Marsico, in invidiabile assetto artistico, si era già fatto notare in prima serata. In forza alla band italo-tedesca degli Özdemirs, era insieme a Johnny Rawls, veterano bluesman sudista dalla corposa carriera discografica, più di venti i CD pubblicati, e dalla presa sul pubblico automatica come in un juke joint globale. “Questo è un soul festival, giusto? Eccomi qua, io sono il Mississippi Soul Man!” dichiara, come a sfumare le differenze tra i generi, prima di attaccare la sua “Red Cadillac”.
Una colonna del festival, la Luca Giordano Band, fa tappa con la sua star della stagione, l’anglo-afro-greco-californiano Chris Cain, forte dell’ultimo disco per Alligator. Cain è di scuola B.B. King, tra i primi della classe, e non se ne vergogna. Rende omaggio al maestro con “Darlin’ You Know I Love You” e con l’intero set, quasi tutto di scritture autografe.
Altro cittadino della Bay Area con accompagnamento europeo (i francesi Soul Shot, già apprezzati con Curtis Salgado), il cantautore di formazione gospel Alabama Mike, è un vivace Wilson Pickett, meno “wicked” ma in nervosa forma, a dimostrare con “Goodbye Tamika” e “Stuff I’ve Been Through” che la soul music può ancora essere reimmaginata.
Il riallineamento con l’asse di Memphis è avvenuto con lo sbarco dell’ineccepibile e più che professionale Memphis Music Hall of Fame Band. Né troppo tradizionale, né troppo modernista, la formazione si è rivelata sufficientemente duttile per adattarsi agli artisti che recava con sé. Il chitarrista Jonathan Ellison, altro bluesman praticamente full-time, ha fatto battere più di un cuore quando ha ricordato di essere salito su questo palco dieci anni fa, direttore musicale al servizio nientemeno che della compianta Denise LaSalle, di cui ha ripreso “Lady In The Street”. Jerome Chism, soul brother di osservanza classica, ha visitato con vigore il repertorio Stax e sobborghi, senza rinunciare a un’ossessiva “Never Make A Move Too Soon” (ancora B.B. King, ulteriore segno che per ascoltare il blues conviene venire al Porretta Soul), mentre il giovanile Gerald Richardson (“the Lover Man”) si è rivelato inatteso sex symbol; dopo essersi crucciato che “Ain’t No Love In The Heart Of The City”, ha condotto per mano fanciulle da metà delle prime file a danzare sul palco.
C’è da supporre che il contratto con il marchio, ben diretto dal tastierista Kurt Clayton, si rinnoverà: Uliani medita di spartirne prestazioni e oneri con Carlo Pagnotta, responsabile di Umbria Jazz, per le prossime edizioni delle rispettive rassegne. Un film a lieto fine, già visto con l’orchestra di Anthony Paule.
Ma tutto il festival sembra un film, lungo quattro giorni e quattro notti. Ne ha ispirato uno, premiato a livello internazionale (“A Soul Journey”, di Marco Della Fonte), e rivitalizzati un paio dell’altro ieri, pure quelli sedotti dal fascino della soul music. Sul limitare del Rufus Thomas Park faceva bella mostra di sé una Bluesmobile, replica di quella movimentata da John Belushi e Dan Aykroyd in “The Blues Brothers”, con tanto di altoparlante sul tetto. Il proprietario, un fisico del Cern, dice di averla acquistata a Cincinnati e guidata fin qui da Ginevra, dove risiede. Una bella spesa – anche di benzina, la Dodge Monaco del 1974 fa tre chilometri con un litro di super – che Erwin Siesling, un imperturbabile fanatico che sotto la canicola indossa camicia, occhiali, cravatta e completo da becchino come i suoi idoli, spera di recuperare partecipando a fiere e programmi tv.
La macchina è stata vicecampionessa di selfie, battuta soltanto dall’inimitabile Andrew Strong, già protagonista originale di un’altra pellicola culto, “The Commitments”. Uliani lo corteggiava da tempo, e la sua venuta non ha deluso. In una ricca scaletta, accompagnato da una band estemporanea battezzata Dublin Soul (vi militano due conterranei, Eamon Flynn alle tastiere e Conor Brady alla chitarra; francesi gli altri) dimostra, più di trent’anni dopo, di essere un performer più che autorevole. Le riprese di “Hard to Handle”, “Grits Ain’t Groceries”, “Feelin’ Alright” e “Sending Me Angels” di Frankie Miller sono tutt’altro che routinarie, ma l’ex capellone irlandese lancia il vero sé stesso in “The Dark End Of The Street”, ardua eccellenza del deep soul. La versione di Strong sta quanto meno alla pari di quella consegnata alla storia da James Carr a Porretta nel 1992. Esagerato? No, lasciatelo dire a chi c’era.
Galleria fotografica a cura di Mariano Trissati e Tonino Novelli