Vittoria fin troppo scontata per la band ucraina che vince col brano “Stefania”. Ottimo secondo posto per Sam Ryder, che riscatta così la brutta figura del Regno Unito dello scorso anno. Solo sesti Mahmood e Blanco. Il racconto dell’edizione italiana di un evento dove l’unica ad uscire sconfitta è proprio la musica
La Kalush Orchestra alla fine ha vinto, anche se come è avvenuto lo scorso anno per i Måneskin con la storia inventata su Damiano, pure questa volta lo strascico di polemiche e richieste di possibili squalifiche, già sono partite. In questo caso a finire nel mirino sono stati gli appelli della band ucraina ad “aiutare il loro Paese e sostenere la resistenza di Mariupol”, ritenuti messaggi politici, non consentiti all’interno della manifestazione canora.
Che questa edizione italiana, svoltasi al Pala Olimpico di Torino, sarebbe stata vinta da loro, non era un mistero per nessuno, inclusi i bookmaker. Accusarli di fare propaganda politica, in una manifestazione che ormai sta diventando sempre più politica e sempre meno musicale, fa un po’ sorridere.
Ma andiamo con ordine. In generale non ci è dispiaciuta la versione italiana dell’Eurovision Song Contest: un palco spettacolare su di una fontana a cascata, splendide scenografie, giochi di luce ed effetti visivi davvero di ottimo livello, a dimostrazione che anche in Italia si riescono ad organizzare grandi eventi internazionali. Buona anche la conduzione del trio composto da Laura Pausini, Alessandro Cattelan e Mika, che hanno dato dimostrazione di saper reggere un evento di questa portata, senza sfigurare, pur non essendo, fatta eccezione di Cattelan, conduttori di professione.
Detto questo, quello che non torna ancora una volta è il metro di giudizio schizofrenico che decreta il vincitore di ogni edizione. Voti della giuria di qualità e del televoto sempre più discordanti tra loro. Brani spesso premiati più per il messaggio o l’impatto scenico dell’esecuzione, che per la reale qualità degli stessi. Pur mostrando tutta la nostra simpatia, il nostro affetto e la nostra vicinanza al popolo ucraino, non possiamo esimerci dal dire, che “Stefania” della Kalush Orchestra era veramente bruttarella come canzone. Un rap intervallato da un ritornello molto simile (se non davvero uguale) al canto tradizionale “Slavi Ukraini”, recentemente rielaborato dai Pink Floyd per il brano “Hey, Hey Rise Up!”, del quale abbiamo recentemente parlato. Non si può dire nemmeno che fosse bello il brano dei serbi Konstrakta, che ha rischiato pure di vincere, arrivando primo nel voto delle giurie di qualità europee e australiana, e piazzandosi alla fine al quinto posto, davanti ai nostri Mahmood e Blanco, con la cantante che si lavava le mani in una bacinella, qualcosa di lunare. Si, va bene, bisogna interpretare il messaggio della canzone, ma il brano, quel pop -dance martellante, cupo e un po’ gotico, era decisamente brutto. Per non parlare del soporifero elvetico Marius Bear con la sua “Boys Do Cry”, adatta più al finale di una festa, quando sono tutti stanchi e assonnati e chiedono l’ultimo lento da ballare prima di salutare e andare via, che inevitabilmente finisce in bassa classifica, non ottenendo voti dal pubblico a casa. Così come la banalissima ballad “Rockstars” proposta da Malik Harris per la Germania, non a caso piazzatasi ultima in classifica.
Davvero non meritavano di più Achille Lauro ed Emma Muscat? Su Lauro si possono dire tante cose: a molti non è simpatico, la sua scelta di gareggiare per San Marino non è stata apprezzata, non eccelle particolarmente nel canto, ma la sua creatività è smisurata, e la sua performance meritava sicuramente la finale. Se il metro di giudizio è il messaggio che veicola la canzone, allora anche qui Lauro aveva fatto centro: la libertà sessuale e la libera espressione della propria identità di genere è un messaggio che all’Eurovision Song Contest ha sempre fatto presa, e niente è stato più forte del bacio saffico di Lauro al chitarrista Boss Doms, (tra l’altro va anche considerata la band di supporto, composta davvero da musicisti veramente validi).
Eppure tutto ciò non è bastato a passare alla finale, malgrado una performance, persino più potente di quella vittoriosa dei Måneskin lo scorso anno; fatta di tori meccanici, fiamme sul palco, travestimenti e scintille che partivano dalle chitarre. Forse la più eccentrica di tutto l’Eurovision Song Contest, dal punto di vista dell’impatto visivo la migliore.
Quanto ad Emma Muscat: brano (“I Am What I Am”) molto bello, presenza scenica e soprattutto voce che meritavano la finale. L’ex concorrente di “Amici” che rappresentava la sua Malta, ha dimostrato di avere la stoffa per competere a grandi livelli, anche se questa passerella internazionale è stata poco generosa con lei, avrà modo di rifarsi e tentare chissà, qualche collaborazione che le permetterà di imporsi in un mercato più ampio di quello italiano e della sua isola d’origine.
Meritavano senza dubbio simpatici georgiani Circus Mircus di accedere in finale, con la loro “Lock Me In” brano davvero divertente ed orecchiabile ed un esibizione molto pittoresca. Migliore rispetto agli altri “mascherati” i misteriosi norvegesi Subwoolfer. Di loro si è fatto un gran parlare, circa la reale identità di chi si nasconde dietro le maschere da lupo che indossano, la loro “Give The Wolf a Banana” è una canzone dance pop molto ballabile, ma dal sapore troppo vecchio: sembrava di vedere i Daft Punk improvvisare un balletto delle Las Ketchup. Roba già ampiamente ascoltata e riascoltata.
Dispiace per il risultato sotto le aspettative di “Brividi” di Mahmood e Blanco. Quest’anno non c’erano grandi aspettative di vittoria per l’Italia, come a Rotterdam l’anno scorso, ma forse il podio lo meritavano più loro che la spagnola Chanel Terrero, a nostro avviso immeritatamente terza con “SloMo”, palese scimmiottamento dell’hip hop americano in salsa iberica, in particolare dello stile di Jennifer Lopez, in tutto e per tutto. Zero originalità.
Incomprensibile poi l’indifferenza di giurie e pubblico per un gruppo come i The Rasmus. Snobbati, passati quasi inosservati, nonostante una canzone come “Jezebel”, veramente apprezzabile, un pezzo rock potente, fresco, frizzante… poi parliamo di una band, non proprio l’ultima arrivata (cinque dischi di platino e dieci dischi d’oro vinti in carriera), tra le alternative rock band più apprezzate al Mondo, e che con il recente ingresso della nuova chitarrista Emilia Suhonen, al posto di Pauli Rantasalmi hanno ritrovato una nuova energia, espressa proprio da questo brano.
Tra la confusione mentale generata da una band francese che canta in bretone e sembra essere un gruppo balcanico, un ex ballerino romeno ora divenuto cantante e che vuole sembrare spagnolo, e di un gruppo islandese che pareva una complesso country texano, arriviamo a Sam Ryder e alla sua “Space Man”. Il Regno Unito, doveva lavare l’onta dell’ultima posizione a zero punti di David Newman, lo scorso anno. Per la patria dei Beatles e non solo, una vergogna troppo grande. Così i britannici hanno calato l’asso, con un fenomeno da undici milioni di follower su TikTok (tra i quali figurano Sia e Alicia Keys), e un brano che vede la collaborazione anche di Amy Wadge co-autrice della hit “Thinking Out Loud” di Ed Sheeran. Con lui, il Regno Unito ottiene il suo miglior piazzamento dal 1998.
La vittoria della Kalush Orchestra ha lanciato un messaggio chiaro, è stata una scelta di cuore o di campo se vogliamo, insomma qualcosa particolarmente legata alla difficile situazione che il loro Paese sta vivendo. Tutti volevano la loro vittoria, persino gli altri concorrenti, che dopo la proclamazione del loro trionfo hanno sostituito le loro rispettive bandiere con quelle ucraine, che erano pronte a sventolare ovunque nell’atmosfera calda del Pala Olimpico di Torino. Conclusione bella, ma secondo un copione già scritto, di questo evento che abbiamo ospitato in Italia, dopo una lunga attesa di ben trentuno anni. Ora appuntamento per il prossimo anno, si spera a Kiev o in un altra città di un’ Ucraina finalmente pacificata.
Foto: Eurovision Press TV